Sono comparsi sulla stampa
italiana articoli che descrivono la necessità di improntare la politica in
alcune nazioni a un sano realismo. Non c’è nulla che io maggiormente condivida,
ma....
Quando saltarono fuori le
primavere arabe ebbi parecchie scontri verbali con molte persone perché a
fronte dell’entusiasmo suscitato nei c.d. progressisti, anche i più “moderati”(
“Ma perché, poverini, non si può
lasciarli perlomeno provare?”) alla mia replica che anche un politico come
Ben Bella ( cito a memoria) pare abbia detto una volta, in tempi ancora non
sospetti: “Gli americani vorrebbero imporci
la democrazia, ma non si rendono conto che la democrazia non è una cosa per gli
arabi”, l’unica cosa che i suddetti sapevano fare era quella di fare
spallucce.
Non parliamo poi dei commentatori,
e soprattutto delle commentatrici, televisive per le quali, anche se per motivi
di età non possono essere state presenti “in
quelle belle manifestazioni per il Vietnam” che un personaggio di “Porci
con le ali” ricordava con nostalgia, chiunque manifesti in una piazza ha ipso facto ragione.
Le frequentazioni che ebbi in
anni passati in questi Paesi mi inducevano ad un tetro pessimismo, che si è
rivelato pienamente giustificato.
Negli anni ’80, dopo la
“Rivoluzione” in Libia tutte le linee telefoniche erano sotto controllo, di
teleselezione internazionale neppure a parlarne, per avere una comunicazione
con l’Italia ci volevano ore di attesa ai posti telefonici pubblici: le
comunicazioni tra le Imprese Italiane operanti in quel paese e la madrepatria
avvenivano tramite telescrivente, strumento facilmente controllabile da parte
della Polizia.
Gli operai italiani che ci
andavano a lavorare venivano attentamente catechizzati dai responsabili delle
Imprese che lì operavano: “State attenti:
non parlate mai né del Paese dove vi trovate né tantomeno di politica, se
qualcuno vi chiede qualcosa o vi fa qualche discorso tenetevi sulle generali,
svicolate e cambiate discorso”.
La vita, per operai, tecnici e
manager, era molto dura: si lavorava come minimo dieci ma anche dodici ore al
giorno, sei giorni la settimana, e la domenica gli unici spassi in un campo in
mezzo al deserto erano il ping-pong, il biliardino o una partita a scopone. Di
vino “legale” neppure a parlarne, di
donne uno si dimenticava pure come erano fatte.
Ottenuta la sospirata
comunicazione con l’Italia, un operaio, entrato dentro la cabina telefonica,
preso probabilmente dal cafard
sahariano e dimentico delle regole di prudenza che gli erano state suggerite,
iniziò a sciacquarsi la bocca mentre parlava con la famiglia : ” Questo è un paese di m....,qui si sta da
cani .... gli abitanti sono ..... “ eccetera eccetera, eccetera. La porta
della cabina telefonica si spalancò all’improvviso, quattro braccia lo
strapparono di peso fuori e iniziarono a prenderlo a sberle. Venne portato al
posto di polizia e ci volle del bello e del buono per fargli avere un visto
d’uscita e imbarcarlo su un aereo per l’Italia senza fargli provare come
fossero fatte le galere libiche.
Alla luce di questi fatti la
morte del ricercatore italiano Giulio Regeni al Cairo, mi lascia innanzitutto
addolorato ma anche altrettanto perplesso. Perché?
Sicuramente aveva il telefono
controllato ed era quantomeno tenuto d’occhio dalla Polizia segreta, che con
ogni probabilità annotava ogni suo spostamento e ogni suo incontro, e di sicuro
era a conoscenza di chi incontrava e di cosa diceva. Perché uccidere uno
straniero, e in una maniera così barbara, facendo poi ritrovare il corpo?
Ma questo triste fatto merita
altre considerazioni, che andranno fatte in altro momento.
Sicuramente il recente intervento
militare anglo-francese in Libia fu degno di quello di Suez, ed ha avuto le
nefaste conseguenze che tutti vediamo, ma ci sono, a mio modestissimo parere,
altre considerazioni da porre sul piatto della bilancia.
Negli anni ’60 in Libia si stava
formando una classe imprenditoriale con una visione, considerati i tempi e le
circostanze, abbastanza efficiente e lungimirante, se considerata per gli
standard islamici. Si trattava perlopiù di persone di origine turca,
provenienti da antiche famiglie ottomane, dedite principalmente al commercio ma
che, con grande intelligenza, stavano iniziando a diversificare le attività
verso il campo delle costruzioni e si sentiva già l’odore di qualche piccola
industria, sia con la collaborazione degli italiani che erano rimasti li dopo
la fine della guerra, sia con i manager e le maestranze fatte venire
principalmente anche in questo caso principalmente dall’Italia, ma anche dalla
Francia.
Esistevano due grosse basi
militari NATO, una americana a Wheelus, vicino Tripoli, e una britannica a El
Adem, vicino Tobruk. Wheelus, oggi Mitiga
International Airport, già base italiana nota come Aeroporto Mellaha, costruita
nel 1923 e sontuosamente (per i tempi) ampliata da Italo Balbo, fu ad un certo
punto la più grande base americana al di fuori del territorio statunitense.
Il Re costituiva un punto di
riferimento ed era una persona sostanzialmente equilibrata e di sicuro
prestigio, anche se molto avanti negli anni e con il grave handicap, a maggior
ragione in un paese arabo, dove gli uomini vengono identificati come Abu (padre di) o, viceversa Ben (figlio di), per almeno cinque
generazioni, di non avere discendenti diretti.
Il primo settembre 1969 Gheddafi
prese il potere. Il fatto era nell’aria, tanto è vero che le famiglie che
durante le vacanze estive erano al seguito dei lavoratori italiani in Libia,
una quindicina di giorni prima, con alcune scuse, vennero per la maggior parte
fatte rientrare in Italia.
Difficile il non pensare che il
tutto sia potuto avvenire senza che gli americani di Wheelus non ne fossero a
conoscenza. Anche perché il copione è sempre il medesimo: quando gli americani
sentono “Royalty” vedono rosso e non
hanno pace sinché non hanno sostituito un “Re” con una “Democrazia”. Si è visto
come sono andate le cose in Egitto, in Iran, in Grecia, e in tanti altri Paesi.
Forse (per quanto mi riguarda il “forse” lo ometterei) anche in Italia.
Gheddafi fu per la Libia la più
grande delle iatture. Non solo perché, come più volte riportato nelle pagine di
questo Blog, come diceva Lord Acton “il
potere corrompe, e un potere assoluto corrompe assolutamente”, ma perché
contrariamente a quello che Machiavelli insegna, vale a dire che il Principe
deve evitare di mettere (troppo) la mano nelle tasche dei suoi sudditi, il
dittatore libico si inventò una “Terza via” esplicata nel c.d. “Libro verde”.
Mentre l’attenzione
internazionale si concentrava sulla nazionalizzazione dell’industria del
petrolio (ma le compagnie petrolifere americane continuarono a operare
indisturbate: senza le trivelle americane il petrolio libico, da cinque a
settemila metri nel sottosuolo, cosa che ne spiega la sua ottima qualità,
sarebbe rimasto dov’era) pochissima diffusione ebbe la nazionalizzazione del
commercio, che gettò sul lastrico la nascente “classe media” libica.
Gheddafi, in sostanza, fece
costruire giganteschi capannoni dove tutti i beni che arrivavano dall’estero
dovevano transitare, per poi essere venduti al popolo “a prezzo politico”. Inutile
dire le ruberie, le malversazioni e le inefficienze che il sistema provocò, in
un ambiente facile alla corruzione come quello arabo. Nonostante i proventi del
petrolio fossero allora alle stelle, il sistema iniziò a non funzionare e,
salvo i generi di prima necessità, come il grano e il the, (Gheddafi era pazzo,
ma non scemo) tutta una serie di beni di consumo iniziò a scarseggiare.
Questo, assieme al clima tetro
che si respirava, portò tutti gli imprenditori locali che disponevano di
capitali all’estero a lasciare il paese, ma soprattutto lasciò il Paese il
meglio delle giovani generazioni che, con la scusa di andare a studiare
all’estero, ben si guardò dal ritornare in patria una volta conclusi gli studi.
Alcuni imprenditori, ammanigliati
con potenti Ras, come, ad esempio
Jallud, sino a un certo punto il numero due del regime, resistettero (il regime
aveva bisogno di loro) e diventarono ancora più ricchi.
Più comprensibile dal punto di
vista psicologico, per certi versi, la “cacciata degli italiani”, vale a dire
coloro che, arrivati in Libia durante il fascismo, erano rimasti nel dopoguerra
nel paese. Tutte le piccole officine meccaniche chiusero, le aziende agricole
create dal fascismo ancora coltivate dai coloni veneti vennero mandate in
malora (prima dell’avvento della Jamahiriya
il vino era legale e tollerato: se ne produceva uno discreto, il cui nome
ricordo ancora, il “Rose of Messa”,
prodotto nei dintorni di Tripoli) e con gli artigiani italiani se ne andò per i
libici la possibilità di creare un paese moderno. Ma non vorrei dilungarmi.
Anche il fatto di considerare
Gheddafi una diga contro un fenomeno migratorio incontrollato va considerato, a
mio parere, sotto un altro punto di vista.
Il fenomeno, già negli anni ’60,
era in corso. Si trattava principalmente allora di tunisini a ovest e egiziani
all’est, che speravano di ottenere un lavoro da manovale nei ricchi cantieri
libici, lavoro che la stragrande maggioranza dei libici poveri o non sapeva o
non voleva fare, assistiti com’erano da un welfare che garantiva il minimo indispensabile
da una parte, e dall’altra da una religione che da generazioni e generazioni insegnava
a non chiedere troppo all’esistenza umana. I libici, popolo non numeroso
stretto tra due popoli con un intenso sviluppo demografico, ne erano
terrorizzati, perché temevano che una volta stabilitisi sul loro territori troppi
stranieri, potevano correre qualche rischio, tanto è vero che, sempre negli
anni ’80, preferivano chiamare una manovalanza thailandese rispetto a chiamare
i “fratelli mussulmani”.
Ne sono terrorizzati ancora oggi,
del resto: sono di proprio di ieri le immagini di nigeriani che vengono
imbarcati su un aereo a Tripoli e rispediti nel loro paese d’origine, senza
accertamento della loro qualità di migranti economici o rifugiati, con grave
scandalo della giornalista italiana di Rai news 24, di stretta osservanza
boldriniana. La polizia libica organizzava dei raid sulle piste nel deserto,
imbarcava su camion tutti i clandestini che trovava e li riaccompagnava alla
frontiera, il tutto con metodi che di certo non sarebbero piaciuti a Magistrati
italiani che giudicano certi arresti “troppo violenti”.
Per Gheddafi, che benissimo si
rendeva conto della sensibilità dell’Occidente in materia, i clandestini erano
una sorta di “assicurazione sulla vita”, ma fece male i suoi conti, come si è
visto.
Il regime gheddafiano, come
quello di Ben Ali in Tunisia, era ormai arrivato alla piena marcescenza e in
Egitto non si intravvedeva all’orizzonte qualcuno che avesse il quid di Mubarak. Tutti i regimi
autoritari, con qualche notevole eccezione, come la Spagna franchista, evitano
con cura il formarsi di una classe dirigente, ma per i motivi che ho malamente
tentato di spiegare più sopra quello libico era particolarmente fragile da
questo punto di vista e questo spiega il caos attuale. Francia e gran Bretagna
pensarono che fosse arrivato il momento di agire ( ma forse per Sarkò c’era
anche qualche considerazione meno nobile) per garantire una vantaggiosa, per le
loro nazioni successione a Gheddafi, ma i risultati sono sotto gli occhi di
tutti Il caos libico parte da molto più lontano.
Nessun commento:
Posta un commento