venerdì 26 agosto 2016

5 – L’Islam e noi - Il “gheddafismo”




Sono comparsi sulla stampa italiana articoli che descrivono la necessità di improntare la politica in alcune nazioni a un sano realismo. Non c’è nulla che io maggiormente condivida, ma....

Quando saltarono fuori le primavere arabe ebbi parecchie scontri verbali con molte persone perché a fronte dell’entusiasmo suscitato nei c.d. progressisti, anche i più “moderati”( “Ma perché, poverini, non si può lasciarli perlomeno provare?”) alla mia replica che anche un politico come Ben Bella ( cito a memoria) pare abbia detto una volta, in tempi ancora non sospetti: “Gli americani vorrebbero imporci la democrazia, ma non si rendono conto che la democrazia non è una cosa per gli arabi”, l’unica cosa che i suddetti sapevano fare era quella di fare spallucce.

Non parliamo poi dei commentatori, e soprattutto delle commentatrici, televisive per le quali, anche se per motivi di età non possono essere state presenti “in quelle belle manifestazioni per il Vietnam” che un personaggio di “Porci con le ali” ricordava con nostalgia, chiunque manifesti in una piazza ha ipso facto ragione.
Le frequentazioni che ebbi in anni passati in questi Paesi mi inducevano ad un tetro pessimismo, che si è rivelato pienamente giustificato.

Negli anni ’80, dopo la “Rivoluzione” in Libia tutte le linee telefoniche erano sotto controllo, di teleselezione internazionale neppure a parlarne, per avere una comunicazione con l’Italia ci volevano ore di attesa ai posti telefonici pubblici: le comunicazioni tra le Imprese Italiane operanti in quel paese e la madrepatria avvenivano tramite telescrivente, strumento facilmente controllabile da parte della Polizia. 

Gli operai italiani che ci andavano a lavorare venivano attentamente catechizzati dai responsabili delle Imprese che lì operavano: “State attenti: non parlate mai né del Paese dove vi trovate né tantomeno di politica, se qualcuno vi chiede qualcosa o vi fa qualche discorso tenetevi sulle generali, svicolate e cambiate discorso”.
La vita, per operai, tecnici e manager, era molto dura: si lavorava come minimo dieci ma anche dodici ore al giorno, sei giorni la settimana, e la domenica gli unici spassi in un campo in mezzo al deserto erano il ping-pong, il biliardino o una partita a scopone. Di vino “legale” neppure a parlarne, di donne uno si dimenticava pure come erano fatte.

Ottenuta la sospirata comunicazione con l’Italia, un operaio, entrato dentro la cabina telefonica, preso probabilmente dal cafard sahariano e dimentico delle regole di prudenza che gli erano state suggerite, iniziò a sciacquarsi la bocca mentre parlava con la famiglia : ” Questo è un paese di m....,qui si sta da cani .... gli abitanti sono ..... “ eccetera eccetera, eccetera. La porta della cabina telefonica si spalancò all’improvviso, quattro braccia lo strapparono di peso fuori e iniziarono a prenderlo a sberle. Venne portato al posto di polizia e ci volle del bello e del buono per fargli avere un visto d’uscita e imbarcarlo su un aereo per l’Italia senza fargli provare come fossero fatte le galere libiche.
Alla luce di questi fatti la morte del ricercatore italiano Giulio Regeni al Cairo, mi lascia innanzitutto addolorato ma anche altrettanto perplesso. Perché? 

Sicuramente aveva il telefono controllato ed era quantomeno tenuto d’occhio dalla Polizia segreta, che con ogni probabilità annotava ogni suo spostamento e ogni suo incontro, e di sicuro era a conoscenza di chi incontrava e di cosa diceva. Perché uccidere uno straniero, e in una maniera così barbara, facendo poi ritrovare il corpo?

Ma questo triste fatto merita altre considerazioni, che andranno fatte in altro momento.
Sicuramente il recente intervento militare anglo-francese in Libia fu degno di quello di Suez, ed ha avuto le nefaste conseguenze che tutti vediamo, ma ci sono, a mio modestissimo parere, altre considerazioni da porre sul piatto della bilancia.

Negli anni ’60 in Libia si stava formando una classe imprenditoriale con una visione, considerati i tempi e le circostanze, abbastanza efficiente e lungimirante, se considerata per gli standard islamici. Si trattava perlopiù di persone di origine turca, provenienti da antiche famiglie ottomane, dedite principalmente al commercio ma che, con grande intelligenza, stavano iniziando a diversificare le attività verso il campo delle costruzioni e si sentiva già l’odore di qualche piccola industria, sia con la collaborazione degli italiani che erano rimasti li dopo la fine della guerra, sia con i manager e le maestranze fatte venire principalmente anche in questo caso principalmente dall’Italia, ma anche dalla Francia.

Esistevano due grosse basi militari NATO, una americana a Wheelus, vicino Tripoli, e una britannica a El Adem, vicino Tobruk. Wheelus, oggi Mitiga International Airport, già base italiana nota come Aeroporto Mellaha, costruita nel 1923 e sontuosamente (per i tempi) ampliata da Italo Balbo, fu ad un certo punto la più grande base americana al di fuori del territorio statunitense.
Il Re costituiva un punto di riferimento ed era una persona sostanzialmente equilibrata e di sicuro prestigio, anche se molto avanti negli anni e con il grave handicap, a maggior ragione in un paese arabo, dove gli uomini vengono identificati come Abu (padre di) o, viceversa Ben (figlio di), per almeno cinque generazioni, di non avere discendenti diretti.

Il primo settembre 1969 Gheddafi prese il potere. Il fatto era nell’aria, tanto è vero che le famiglie che durante le vacanze estive erano al seguito dei lavoratori italiani in Libia, una quindicina di giorni prima, con alcune scuse, vennero per la maggior parte fatte rientrare in Italia.
Difficile il non pensare che il tutto sia potuto avvenire senza che gli americani di Wheelus non ne fossero a conoscenza. Anche perché il copione è sempre il medesimo: quando gli americani sentono “Royalty” vedono rosso e non hanno pace sinché non hanno sostituito un “Re” con una “Democrazia”. Si è visto come sono andate le cose in Egitto, in Iran, in Grecia, e in tanti altri Paesi. Forse (per quanto mi riguarda il “forse” lo ometterei) anche in Italia.

Gheddafi fu per la Libia la più grande delle iatture. Non solo perché, come più volte riportato nelle pagine di questo Blog, come diceva Lord Acton “il potere corrompe, e un potere assoluto corrompe assolutamente”, ma perché contrariamente a quello che Machiavelli insegna, vale a dire che il Principe deve evitare di mettere (troppo) la mano nelle tasche dei suoi sudditi, il dittatore libico si inventò una “Terza via” esplicata nel c.d. “Libro verde”. 

Mentre l’attenzione internazionale si concentrava sulla nazionalizzazione dell’industria del petrolio (ma le compagnie petrolifere americane continuarono a operare indisturbate: senza le trivelle americane il petrolio libico, da cinque a settemila metri nel sottosuolo, cosa che ne spiega la sua ottima qualità, sarebbe rimasto dov’era) pochissima diffusione ebbe la nazionalizzazione del commercio, che gettò sul lastrico la nascente “classe media” libica.

Gheddafi, in sostanza, fece costruire giganteschi capannoni dove tutti i beni che arrivavano dall’estero dovevano transitare, per poi essere venduti al popolo “a prezzo politico”. Inutile dire le ruberie, le malversazioni e le inefficienze che il sistema provocò, in un ambiente facile alla corruzione come quello arabo. Nonostante i proventi del petrolio fossero allora alle stelle, il sistema iniziò a non funzionare e, salvo i generi di prima necessità, come il grano e il the, (Gheddafi era pazzo, ma non scemo) tutta una serie di beni di consumo iniziò a scarseggiare.

Questo, assieme al clima tetro che si respirava, portò tutti gli imprenditori locali che disponevano di capitali all’estero a lasciare il paese, ma soprattutto lasciò il Paese il meglio delle giovani generazioni che, con la scusa di andare a studiare all’estero, ben si guardò dal ritornare in patria una volta conclusi gli studi.

Alcuni imprenditori, ammanigliati con potenti Ras, come, ad esempio Jallud, sino a un certo punto il numero due del regime, resistettero (il regime aveva bisogno di loro) e diventarono ancora più ricchi.
Più comprensibile dal punto di vista psicologico, per certi versi, la “cacciata degli italiani”, vale a dire coloro che, arrivati in Libia durante il fascismo, erano rimasti nel dopoguerra nel paese. Tutte le piccole officine meccaniche chiusero, le aziende agricole create dal fascismo ancora coltivate dai coloni veneti vennero mandate in malora (prima dell’avvento della Jamahiriya il vino era legale e tollerato: se ne produceva uno discreto, il cui nome ricordo ancora, il “Rose of Messa”, prodotto nei dintorni di Tripoli) e con gli artigiani italiani se ne andò per i libici la possibilità di creare un paese moderno. Ma non vorrei dilungarmi.

Anche il fatto di considerare Gheddafi una diga contro un fenomeno migratorio incontrollato va considerato, a mio parere, sotto un altro punto di vista.
Il fenomeno, già negli anni ’60, era in corso. Si trattava principalmente allora di tunisini a ovest e egiziani all’est, che speravano di ottenere un lavoro da manovale nei ricchi cantieri libici, lavoro che la stragrande maggioranza dei libici poveri o non sapeva o non voleva fare, assistiti com’erano da un welfare che garantiva il minimo indispensabile da una parte, e dall’altra da una religione che da generazioni e generazioni insegnava a non chiedere troppo all’esistenza umana. I libici, popolo non numeroso stretto tra due popoli con un intenso sviluppo demografico, ne erano terrorizzati, perché temevano che una volta stabilitisi sul loro territori troppi stranieri, potevano correre qualche rischio, tanto è vero che, sempre negli anni ’80, preferivano chiamare una manovalanza thailandese rispetto a chiamare i “fratelli mussulmani”.

Ne sono terrorizzati ancora oggi, del resto: sono di proprio di ieri le immagini di nigeriani che vengono imbarcati su un aereo a Tripoli e rispediti nel loro paese d’origine, senza accertamento della loro qualità di migranti economici o rifugiati, con grave scandalo della giornalista italiana di Rai news 24, di stretta osservanza boldriniana. La polizia libica organizzava dei raid sulle piste nel deserto, imbarcava su camion tutti i clandestini che trovava e li riaccompagnava alla frontiera, il tutto con metodi che di certo non sarebbero piaciuti a Magistrati italiani che giudicano certi arresti “troppo violenti”.

Per Gheddafi, che benissimo si rendeva conto della sensibilità dell’Occidente in materia, i clandestini erano una sorta di “assicurazione sulla vita”, ma fece male i suoi conti, come si è visto.
Il regime gheddafiano, come quello di Ben Ali in Tunisia, era ormai arrivato alla piena marcescenza e in Egitto non si intravvedeva all’orizzonte qualcuno che avesse il quid di Mubarak. Tutti i regimi autoritari, con qualche notevole eccezione, come la Spagna franchista, evitano con cura il formarsi di una classe dirigente, ma per i motivi che ho malamente tentato di spiegare più sopra quello libico era particolarmente fragile da questo punto di vista e questo spiega il caos attuale. Francia e gran Bretagna pensarono che fosse arrivato il momento di agire ( ma forse per Sarkò c’era anche qualche considerazione meno nobile) per garantire una vantaggiosa, per le loro nazioni successione a Gheddafi, ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti Il caos libico parte da molto più lontano.

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