martedì 19 luglio 2016

3 – L’Islam e noi – Homo abilis e Homo sapiens



Come affermato nel precedente articolo, l'Occidente è debitore all'Islam non solo di numerose scoperte scientifiche, ma anche e soprattutto del fatto che fu proprio grazie alle traduzioni arabe che i Crociati scoprirono il sapere dei filosofi e degli scienziati greci e romani, che la Chiesa accuratamente custodiva nei propri monasteri e che ben si guardava dal rendere noto al mondo esterno, per evitare che venissero pericolosamente divulgati testi di autori "pagani": prima del 1150 solo pochissime opere di Aristotele erano accessibili ai laici nell'Europa latina.

Non solo, ma la Chiesa Romana cercava di limitare il numero delle persone che sapevano leggere e scrivere, in maniera che il clero detenesse il monopolio della cultura: ciò in quanto, come noto, nella Chiesa cattolica la lettura e la conseguente interpretazione delle Sacre Scritture sono di competenza del vescovo e, fra tutti i vescovi, quello di Roma. La Chiesa romana è il diretto tramite tra uomo e Dio e non importa quindi se il "fedele" è analfabeta, tanto non deve leggere e interpretare alcunché, ma solo ascoltare e recitare preghiere, che può tranquillamente imparare e recitare a memoria. Nell'Islam invece, dove Dio si è fatto "Libro", è dovere del "credente" saper leggere in quanto, non esistendo figure intermediarie tra uomo e Dio, è il "credente" il diretto responsabile della conoscenza delle scritture e deve, come nell'Ebraismo, leggerle il più possibile direttamente. Non esiste nell'Islam un'autorità religiosa suprema, ma esistono per così dire "scuole di pensiero" fondate da persone che hanno dedicato la loro vita allo studio (gli “ulema”), aventi una maggiore o minore autorità, talvolta in contrasto tra loro: ne risulta quindi che, alla fine, l'interpretazione che del Corano viene data non può che essere quella letterale.
Come mai quindi, pur partendo da una posizione culturalmente favorevole, Islam non riuscì a sviluppare una civiltà tecnologica?

A mio parere, due sono le principali limitazioni presenti in quella religione: una che si potrebbe definire di tipo “metafisico”, l’altra connessa con applicazioni di tipo pratico.
“Allah tutto vede e tutto sa e a tutto provvede: tutto accadrà se Allah lo vorrà e niente accadrà se Allah non lo vorrà.....” Si sviluppa una società che chiamerei del "....malesh....buchran, inch'Allah..." che nel dialetto arabo del Nord Africa significa pressappoco "non fa niente, va bene anche così...... quando si deve fare questa cosa, oggi? no, oggi no, forse domani, ma solo se Dio lo vorrà..." Nel 1968 c'era a Tobruk un gruppo di suore italiane che lavoravano nel locale ospedale, e che dicevano "Inch'Allah..." anche loro. Se a questo si aggiunge un clima pesante, un territorio generalmente arido e inospitale (ma un tempo era, per svariati motivi, meno inospitale di oggi), scarsezza di materie prime e d'acqua, ci si rende conto di questo atteggiamento assai poco “produttivista”, mi permetterei di dire.

La seconda causa discende anch'essa dai precetti religiosi, ma ha una connotazione di tipo eminentemente pratico.
Come è noto l’Islam proibisce la raffigurazione degli esseri viventi: ma, poiché se uno è bravo a disegnare e raffigurare, che so, un vaso di fiori, questa sua bravura può indurlo commettere peccato e a raffigurare la figura umana se non addirittura, non sia mai, il Profeta.
Quindi, meglio astenersi dalle raffigurazioni e dal disegno in genere: ancora una volta appare la similitudine tra Islam ed Ebraismo. Gli “arabeschi” che decorano le moschee sono figure astratte che nulla hanno a che fare con una rappresentazione di tipo iconico, e la vera arte figurativa araba è la calligrafia, con la quale si scrive la parola del Profeta: le edizioni più preziose del Corano sono scritte infatti con differenti calligrafie a secondo delle “Sure”. Nulla che possa essere capito da un occidentale ovviamente, e probabilmente anche poco dagli islamici di oggi, a meno di un pugno di studiosi.
In Occidente invece, dopo l’anno mille, inizia a formarsi o meglio, a riformarsi, una potente cultura dell’immagine.
La cultura dell’immagine era anch’essa rimasta chiusa nei monasteri e limitata ai preziosissimi e costosissimi codici miniati, con diffusione quindi praticamente inesistente se non, in ambito laico, nelle Corti.
La Chiesa, che dopo l’anno mille ha bisogno di rafforzare il suo magistero, trova nella raffigurazione un potente strumento di propaganda: quale mezzo migliore di un’immagine per far capire e far ricordare a un analfabeta un episodio delle Scritture o della vita di un Santo?
Le teorie le sperimentazioni psicologiche e la Gestalt ci ha fatto chiaramente capire come si ricordi l’ottanta per cento di una cosa che si vede, il cinquanta di una che si scrive, il trenta di una che si legge e il venti di una che si ascolta.
Ritrovando quindi una tradizione greca e romana, mai definitivamente spenta, si sviluppa così la figura di un artigiano che è capace di eseguire una raffigurazione. Ma per eseguire una raffigurazione è innanzitutto fondamentale operare preliminarmente una concettualizzazione: occorre togliere l’inessenziale e cogliere l’essenziale, si devono operare scelte e semplificazioni e trovare compromessi: come si fa, innanzitutto, a rappresentare su una tavola o su una parete, che ha solo due dimensioni, un oggetto complesso come un viso, che di dimensioni ne ha tre e dove non sono distinguibili linee vere e proprie? “La pittura è cosa mentale” scriveva Leonardo.
Chi disegna e dipinge deve, innanzitutto nella sua mente, eseguire quello che diventerà fondamentale nella cultura occidentale e che la distingue da tutte le altre: vale a dire un “progetto”.
Pro – getto: dò qualche cosa “prima”.
Ma l’artigiano –artista è anche in pieno contatto con il sapere manuale, in quanto si prepara da sé o nell’ambito della sua bottega i pennelli e le tavole (le tecniche di bottega sono tenute rigorosamente segrete e la pittura su tela, per ragioni tecniche, verrà molto dopo), deve procurarsi e “macinare” i colori, per cui deve essere un po’ alchimista, viene chiamato a costruire edifici e a predisporre architetture effimere per cui deve essere architetto, ingegnere e scenografo: i ragazzi talentuosi, come Cimabue, Giotto, Michelangelo, Leonardo vengono immediatamente individuati e messi “a bottega”.
In un viso linee non ne esistono, ci sono solo superfici, o “piani”, come dicono i pittori: per cui per rappresentarlo prima si deve operare una concettualizzazione, togliendo l’inutile (“la scultura” dice Michelangelo “è arte di togliere”) e cercando di capire cosa è indispensabile: solo dopo si può passare ad una raffigurazione.
E questa fondamentale riscoperta della cultura greco-romana avrà conseguenze enormi per il nostro modo di pensare.

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