Come affermato nel precedente articolo, l'Occidente è debitore
all'Islam non solo di numerose scoperte scientifiche, ma anche e soprattutto
del fatto che fu proprio grazie alle traduzioni arabe che i Crociati scoprirono
il sapere dei filosofi e degli scienziati greci e romani, che la Chiesa
accuratamente custodiva nei propri monasteri e che ben si guardava dal rendere
noto al mondo esterno, per evitare che venissero pericolosamente divulgati
testi di autori "pagani": prima del 1150 solo pochissime opere di
Aristotele erano accessibili ai laici nell'Europa latina.
Non solo, ma la Chiesa Romana cercava di limitare il numero
delle persone che sapevano leggere e scrivere, in maniera che il clero
detenesse il monopolio della cultura: ciò in quanto, come noto, nella Chiesa
cattolica la lettura e la conseguente interpretazione delle Sacre Scritture
sono di competenza del vescovo e, fra tutti i vescovi, quello di Roma. La
Chiesa romana è il diretto tramite tra uomo e Dio e non importa quindi se il
"fedele" è analfabeta, tanto non deve leggere e interpretare
alcunché, ma solo ascoltare e recitare preghiere, che può tranquillamente
imparare e recitare a memoria. Nell'Islam invece, dove Dio si è fatto
"Libro", è dovere del "credente" saper leggere in quanto,
non esistendo figure intermediarie tra uomo e Dio, è il "credente" il
diretto responsabile della conoscenza delle scritture e deve, come
nell'Ebraismo, leggerle il più possibile direttamente. Non esiste nell'Islam
un'autorità religiosa suprema, ma esistono per così dire "scuole di
pensiero" fondate da persone che hanno dedicato la loro vita allo studio
(gli “ulema”), aventi una maggiore o minore autorità, talvolta in contrasto tra
loro: ne risulta quindi che, alla fine, l'interpretazione che del Corano viene
data non può che essere quella letterale.
Come mai quindi, pur partendo da una posizione culturalmente
favorevole, Islam non riuscì a sviluppare una civiltà tecnologica?
A mio parere, due sono le principali limitazioni presenti in
quella religione: una che si potrebbe definire di tipo “metafisico”, l’altra
connessa con applicazioni di tipo pratico.
“Allah
tutto vede e tutto sa e a tutto provvede: tutto accadrà se Allah lo vorrà e
niente accadrà se Allah non lo vorrà.....”
Si sviluppa una società che chiamerei del "....malesh....buchran,
inch'Allah..." che nel dialetto arabo del Nord Africa significa pressappoco
"non fa niente, va bene anche
così...... quando si deve fare questa cosa, oggi? no, oggi no, forse domani, ma
solo se Dio lo vorrà..." Nel 1968 c'era a Tobruk un gruppo di suore
italiane che lavoravano nel locale ospedale, e che dicevano "Inch'Allah..." anche loro. Se
a questo si aggiunge un clima pesante, un territorio generalmente arido e
inospitale (ma un tempo era, per svariati motivi, meno inospitale di oggi), scarsezza
di materie prime e d'acqua, ci si rende conto di questo atteggiamento assai
poco “produttivista”, mi permetterei di dire.
La seconda causa discende anch'essa dai precetti religiosi, ma
ha una connotazione di tipo eminentemente pratico.
Come è noto l’Islam proibisce la raffigurazione degli esseri
viventi: ma, poiché se uno è bravo a disegnare e raffigurare, che so, un vaso
di fiori, questa sua bravura può indurlo commettere peccato e a raffigurare la
figura umana se non addirittura, non sia mai, il Profeta.
Quindi, meglio astenersi dalle raffigurazioni e dal disegno in
genere: ancora una volta appare la similitudine tra Islam ed Ebraismo. Gli
“arabeschi” che decorano le moschee sono figure astratte che nulla hanno a che
fare con una rappresentazione di tipo iconico, e la vera arte figurativa araba
è la calligrafia, con la quale si scrive la parola del Profeta: le edizioni più
preziose del Corano sono scritte infatti con differenti calligrafie a secondo
delle “Sure”. Nulla che possa essere
capito da un occidentale ovviamente, e probabilmente anche poco dagli islamici
di oggi, a meno di un pugno di studiosi.
In Occidente invece, dopo l’anno mille, inizia a formarsi o
meglio, a riformarsi, una potente cultura dell’immagine.
La cultura dell’immagine era anch’essa rimasta chiusa nei
monasteri e limitata ai preziosissimi e costosissimi codici miniati, con
diffusione quindi praticamente inesistente se non, in ambito laico, nelle
Corti.
La Chiesa, che dopo l’anno mille ha bisogno di rafforzare il suo
magistero, trova nella raffigurazione un potente strumento di propaganda: quale
mezzo migliore di un’immagine per far capire e far ricordare a un analfabeta un
episodio delle Scritture o della vita di un Santo?
Le teorie le sperimentazioni psicologiche e la Gestalt ci ha
fatto chiaramente capire come si ricordi l’ottanta per cento di una cosa che si
vede, il cinquanta di una che si scrive, il trenta di una che si legge e il
venti di una che si ascolta.
Ritrovando quindi una tradizione greca e romana, mai
definitivamente spenta, si sviluppa così la figura di un artigiano che è capace
di eseguire una raffigurazione. Ma per eseguire una raffigurazione è innanzitutto
fondamentale operare preliminarmente una concettualizzazione: occorre togliere
l’inessenziale e cogliere l’essenziale, si devono operare scelte e
semplificazioni e trovare compromessi: come si fa, innanzitutto, a
rappresentare su una tavola o su una parete, che ha solo due dimensioni, un
oggetto complesso come un viso, che di dimensioni ne ha tre e dove non sono
distinguibili linee vere e proprie? “La
pittura è cosa mentale” scriveva Leonardo.
Chi disegna e dipinge deve, innanzitutto nella sua mente,
eseguire quello che diventerà fondamentale nella cultura occidentale e che la
distingue da tutte le altre: vale a dire un “progetto”.
Pro –
getto: dò qualche cosa “prima”.
Ma l’artigiano –artista è anche in pieno contatto con il sapere
manuale, in quanto si prepara da sé o nell’ambito della sua bottega i pennelli
e le tavole (le tecniche di bottega sono tenute rigorosamente segrete e la
pittura su tela, per ragioni tecniche, verrà molto dopo), deve procurarsi e “macinare”
i colori, per cui deve essere un po’ alchimista, viene chiamato a costruire
edifici e a predisporre architetture effimere per cui deve essere architetto,
ingegnere e scenografo: i ragazzi talentuosi, come Cimabue, Giotto,
Michelangelo, Leonardo vengono immediatamente individuati e messi “a bottega”.
In un viso linee non ne esistono, ci sono solo superfici, o “piani”,
come dicono i pittori: per cui per rappresentarlo prima si deve operare una
concettualizzazione, togliendo l’inutile (“la
scultura” dice Michelangelo “è arte
di togliere”) e cercando di capire cosa è indispensabile: solo dopo si può
passare ad una raffigurazione.
E questa fondamentale riscoperta della cultura greco-romana avrà
conseguenze enormi per il nostro modo di pensare.
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