Seguito dell'articolo precedente.
Dopo aver visto perché Trump è così inviso ai
potentati statunitensi, vediamo adesso perché è così inviso ai potentati
economici internazionali.
"Cosa pensa del fatto che la Cina entro pochissimo tempo sostituirà tutto il software statunitense con software Made in China?" è stato chiesto al Prof. Carlo Cottarelli della “spending review”, già alto funzionario dell’FMI, in un'intervista al TG4 di metà 2019, e quindi in era abbondantemente pre-Covid.
"Uno dei tanti problemi causati da una globalizzazione avvenuta a mio parere troppo in fretta..." la risposta del noto Professore.
Per lo stupore mi si è quasi slogata la mandibola, pensavo di non aver capito bene, ho dovuto chiedere a chi mi stava vicino conferma di queste parole: tutto avrei pensato fuorché il Prof. Cottarelli critico della “globalizzazione”, o perlomeno di un certo tipo di “globalizzazione”.
Il Covid ha poi pienamente dimostrato i danni di una globalizzazione troppo spinta.
Ma da dove viene questa “globalizzazione”? Quando si iniziò a pensare ad un mondo “globalizzato”? E chi ne furono gli artefici?
Alla fine degli anni ’60 gli Stati Uniti, grazie ai Presidenti Democratici Kennedy prima e Johnson dopo, si erano impelagati nella peggior guerra che avessero mai combattuto, Guerra Civile a parte, con risultati scarsissimi sia per l'indecisione mostrata dai Politici che per l’incompetenza sia dei Politici che dei Generali che avevano l’ingrato onere di condurla.
L’opinione pubblica statunitense era furiosa sia per il numero delle vittime, sia per gli enormi costi che la guerra comportava, mentre in tutto il mondo montava l’antipatia contro gli S.U., orchestrata da una abilissima azione di propaganda.
“...ma te le ricordi quelle belle manifestazioni per il Vietnam?” ricorda con rimpianto un personaggio del film “Porci con le ali” (regia di Paolo Pietrangeli,1977).
Ai tempi della Guerra in Irak intervistai una
Signora americana, moglie dell’Amministratore delegato di una grossa Azienda
italiana.
“..cosa si dice negli Stati Uniti di
questa guerra?” la mia domanda alla Signora.
“.. che questa guerra sta costando
troppo...” la sua risposta.
Nixon venne eletto per l’esplicita promessa da lui
fatta in campagna elettorale di portar fuori, con un “piano segreto”, gli Stati Uniti dal
conflitto, in un modo o nell’altro, e in maniera, se possibile, “non troppo
disonorevole.” Nixon giurò il 20 gennaio 1969.
In quel periodo i rapporti tra Unione Sovietica, che veniva accusata di “revisionismo” e Cina erano ai minimi storici, con tensioni che culminarono con scontri armati sul fiume Ussuri (1968); c’era stata la “Rivoluzione culturale” che aveva lasciato in ginocchio una Cina già prostrata dalla guerra civile, con seri problemi persino per l’approvvigionamento alimentare per la sterminata popolazione.
Già alla fine degli anni ’60, Mao si rese conto che la Cina non poteva sostenere un conflitto contemporaneo con Stati Uniti e Unione Sovietica, mentre dal canto suo l’Amministrazione americana aveva la necessità di una “sponda” nella regione che la aiutasse ad uscire dal pantano vietnamita. Faccio presente che le relazioni sino-vietnamite sono sempre state pessime sin dai tempi più remoti (la Cina è un vicino di casa molto ingombrante) e l’appoggio dato dalla Repubblica Popolare Cinese ai nordvietnamiti era assolutamente politico e strumentale, perché il vero peso della guerra veniva sostenuto dall’Unione Sovietica, che riforniva i Nord-vietnamiti di armi e munizioni, in particolare i missili contraerei. Nel 1971, le più alte cariche cinesi si incontrarono con Henry Kissinger e, un anno dopo, col presidente Nixon. Chi si ricorda della cosiddetta “diplomazia del ping-pong”?
Nixon offrì la cooperazione americana per lo sviluppo della Cina, offrì di raffreddare lo strettissimo legame statunitense con Taiwan, fatto al quale i cinesi erano sensibilissimi, e riuscì a convincere i cinesi della convergenza di interessi tra il capitale americano e la manodopera cinese, per cui le relazioni sino-statunitensi poterono dirsi stabilizzate. In qualche modo Nixon riuscì a portare fuori gli americani fuori dal conflitto.
Ebbe così inizio la c.d. “globalizzazione”, anche se pochissimi allora se ne resero conto. Ma questi “pochissimi” erano molto potenti e i loro interessi messi in pericolo da questa nuova visione del mondo: è noto come l’”Economia”, e in particolare la “Finanza”, risultino estremamente conservatrici e si oppongano a cambiamenti radicali: “ .. i ‘mercati’ hanno bisogno di stabilità” il loro mantra, salvo qundo l’instabilità giovi ai loro interessi, come accadde nel 1929 e nel 2008, solo per citare i due casi più noti.
Fu questa la vera ragione della messa in stato di accusa di Nixon, non certo le spie che secondo il W.P. vennero mandate a spiare una Convention del Partito Democratico, come ci fu fatto credere.
Solo che la globalizzazione non andò coma da
progetto e si rivelò come il libro delle formule magiche dell’apprendista
stregone Topolino nel noto film della Disney.
Ovviamente l’Amministrazione Cinese ha capitali illimitati per indirizzare il
pensiero delle opinioni pubbliche mondiali nel senso da lei programmato, ma la
situazione reale è molto diversa, come mostrato dall’articolo del noto economista
Giorgio Arfaras, in un articolo pubblicato in tempi non sospetti
https://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/3514-la-cina-%C3%A8-una-tigre-di-carta.html
dal quale riporto l’incipit del primo paragrafo:
1. Quale retroscena? C’era una volta un paese molto povero e di antica civiltà che voleva inurbare centinaia di milioni di contadini in maniera ordinata, senza favelas. Il paese non disponeva di tecnologia e non aveva un sistema finanziario. Lo sviluppo di questo paese, una volta conosciuto come Impero Celeste e oggi noto come Repubblica popolare cinese, doveva partire dall’offerta di lavoro con salari bassi. Le imprese estere potevano combinare il lavoro locale con la loro tecnologia avanzata. Potevano guadagnare più del profitto normale, perché lucravano il minor costo del lavoro e quindi erano incentivate ad investire. Intanto i cinesi, esportando più di quanto importino, hanno accumulano, per mantere il cambio fisso, delle enormi riserve valutarie che sono state investite in obbligazioni statunitensi. Le obbligazioni statunitensi di proprietà cinese lasciate in ostaggio agli statunitensi proteggono gli ingenti investimenti in impianti fatti in Cina da molti paesi. I crediti cinesi a fronte degli investimenti esteri sono il fondamento del sistema di mutua distruzione assicurata: “se tu mi nazionalizzi i miei impianti, allora io ti sequestro i tuoi BOT! Se provi a rovinarmi, io ti rovino, ma se tu non fai niente, allora io non faccio niente”.
Mi pare ovvio osservare che la globalizzazione poteva basarsi solo su una preponderante potenza militare americana, che facesse per così dire da gendarme mondiale dell’ordine costituito”. Ma è stata proprio questa globalizzazione a minarne le basi: come farebbero gli Stati Uniti, nel caso di un ipotetico conflitto, costruire carri armati, aerei, missili, quando l’acciaio e l’alluminio necessari per la fabbricazione dovrebbero essere, per la maggior parte, di fornitura cinese? Per non parlare dei micropocessori, degli schermi LCD etc.
Lo stesso Obama quando praticamente “regalò” uno storico marchio dell’automotive statunitense con relativa fabbrica alla nota Ditta italiana ebbe a dire, nel discorso che segnava il passaggio di proprietà dell’azienda “... occorrerà che queste auto vengano costruite con acciaio americano....”
Trump ha cercato di riportare certe produzioni nella maderepatria applicando dazi commerciali ma, come già avvenne per Nixon, l’”ordine costituito” si me messo in mezzo: la “Finanza” non vuole cambiamenti che essa stessa non generi.
Ma, alla fine, come hanno fatto per far fuori Trump?
Fatto che pochi sanno, negli Stati Uniti si è sviluppato in maniera molto sensibile negli ultimi anni il movimento dei Libertarians, che del resto è sempre esistito.
I Libertarians discendono direttamente dal “Tea party” che diede origine alla Rivoluzione americana, quando un gruppo di coloni, travestiti da native americans (guarda caso), diedero l’assalto ad una nave britannica che trasportava un carico di the, appunto, che gettarono in mare.
In Europa verrebbero considerati, paradossalmente, degli “anarchici di destra”, se non fosse impossibile applicare le “categorie” della politica europea alla politica americana, che è totalmente differente, e che porta spesso gli europei a fare errori marchiani in certi giudizi.
In certi Stati che si sapevano in bilico, come l’Arizona, è stato
sufficiente, considerando il livello culturale di un certo tipo di popolazione
americana, finanziare questi movimenti (ricordo che qualsiasi cittadino
americano si può candidare per la Presidenza) e sottrarre non milioni di voti,
come fece Ross Perot nel 1992 a Bush senior, ma semplicemente quella decina di migliaia di voti necessari
per spostare l’ago della bilancia a sfavore di Trump. Il gioco dei voti
elettorali ha fatto il resto. Semplice ed elegante.
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