La sezione della fune metallica da 50 mm stretta in un involucro metallico esterno per tenerlo insieme.
Contrariamente a quanto generalmente accade oggi ai giovani neolaureati, gli inizi della mia carriera furono professionalmente i più interessanti.
Venni chiamato a collaborare in uno Studio di Ingegneria e Architettura che si occupava di un progetto non solo di grandi dimensioni, ma assolutamente all’avanguardia per l’epoca: i Titolari dello Studio, evidentemente rassicurati dal mio voto di laurea, mi lasciavano ampi spazi e il lavoro mi piaceva tanto che quasi mi sembrava strano che mi pagassero per farlo!
Come detto, alcuni degli edifici avevano caratteristiche d’avanguardia, e facevano uso strutturale di funi metalliche (sic).
I requisiti di queste funi metalliche erano molto stringenti: dovevano essere abbastanza “rigide” (gli eventuali colleghi che dovessero leggere queste note mi scuseranno per i termini non tecnici: a richiesta potrò dare tutti i chiarimenti del caso) per evitare un eccessivo “allungamento” ( e questo richiedeva una fune costituita da un numero di fili singoli non troppo elevato) e la necessità invece di poter resistere anche in una particolare situazione dove il raggio di curvatura risultava piuttosto piccolo per una fune del diametro di 50 mm, il che richiedeva una fune con un notevole numero di fili sottili.
Dopo alcune
telefonate intercorse con Vancouver, dove risiedeva il nostro Consulente
strutturale, l’Ing. Bogue B. Babicki, stesi le specifiche tecniche e le inviai
alle principali ditte produttrici.
Dopo qualche settimana venne organizzata una riunione con una delle Ditte, che partecipò
con il Direttore commerciale, il Direttore dello Stabilimento e il Responsabile
del settore funi, i Titolari dello Studio, l’Ing. Babicki venuto appositamente
da Canada e, a parte ogni modestia, il sottoscritto.
“ Le vostre specifiche sono molto
particolari, e non abbiamo nel nostro catalogo generale niente del genere. Ma…”
proseguì, “abbiamo correntemente in
produzione questo tipo di fune, che noi produciamo in base alle specifiche di
un capitolato sovietico, e che potrebbe andare bene per la vostra applicazione”
disse Il Responsabile del settore funi, estraendo un campione della fune da una
borsa. “Noi produciamo queste funi, le
spediamo per ferrovia franco frontiera dopodiché non ne sappiamo più niente e non
abbiamo idea di dove e come le usino. Sospettiamo vengano usate in impianti
minerari, ma non sappiamo niente di certo.”
Ero molto giovane e quindi piuttosto impulsivo e mi venne spontaneo fare
una domanda: “Ma come mai i sovietici si
fanno fare le funi proprio da noi italiani, dovendole poi pagare in dollari?
Con tutta la loro tecnologia, missili, satelliti carri armati?”
“Non lo sappiamo” la risposta del Direttore commerciale “ma possiamo pensare che sia per un problema di controllo qualità. Se è così come noi pensiamo la rottura di una di queste funi potrebbe significare la morte di centinaia di minatori, ed evidentemente si fidano più di noi che di loro stessi”.
Alla faccia della Grande Potenza.
Quando si incominciò a parlare di “distensione” tra U.S.A. e U.R.S.S. una delle prime cose che vennero organizzate furono alcune missioni spaziali “congiunte”: i Sovietici erano ovviamente interessati alle tecnologie statunitensi, mentre gli statunitensi erano interessati agli effetti fisiologici di lunghe permanenze nello spazio, che i sovietici non avevano nessuna remora a far subire ai propri cosmonauti.
Una Commissione si
recò in una base spaziale sovietica per ispezionare gli impianti: Deputati e
Senatori furono inorriditi da quello che videro e furono lì lì per negare i
fondi per le missioni. “Non permetteremo
mai che i nostri boys, così scelti ed addestrati, rischino la vita affidandosi
a tecnologie così rozze”, il
loro unanime commento.
Anni fa andai al Salone aeronautico di Farnborough, in Inghilterra, dove, fianco
a fianco, venivano esposti aerei russi e aerei occidentali.
La differenza di tecnologia appariva a prima vista: mentre la superficie
esterna di quelli occidentali era perfettamente liscia ed avviata, quella degli
aerei russi era ricoperta da “rivetti” sporgenti, che neppure noi italiani
utilizzavamo più nella IIa G.M…
Se poi consideriamo che un turboreattore sovietico militare ha, secondo le mie
informazioni (non recentissime, ma non credo i russi abbiano fatto grandi
progressi n tal senso) un TBO, cioè Time between overhauls, cioè il numero di
ore di funzionamento raccomandato dal produttore prima che un motore
aeronautico o un altro componente richieda la revisione, che è pari ad un
settimo di quello di un motore occidentale analogo, il che vuol dire che i
russi hanno bisogno di sette motori quando agli occidentali ne basta uno, la
dice lunga sulla efficienza delle Forze Armate russe.
O forse Putin pensava che graziosamente gli americani rinnovassero in occasione
dell’invasione dell’Ucraina la Legge “Lend-lease”?
Wiki:
…Lend-Lease Act approvato l'11 marzo 1941 e che consentiva al Presidente degli Stati Uniti di «...vendere, trasferire il possesso, scambiare, affittare, prestare, o disporre in altra maniera, a ognuno dei governi la cui difesa è ritenuta vitale per la difesa degli Stati Uniti stessi dal Presidente qualsiasi articolo da difesa.
…
“Per fare un esempio, l'URSS era fortemente dipendente dal trasporto
ferroviario ma la crescita della produzione di armamenti comportò la riduzione
a sole venti nuove unità dell'intera produzione di locomotive nel periodo della
guerra. In questo contesto, la fornitura di 1 981 locomotive di produzione statunitense
ebbe un peso decisivo.”
…
Oltre alle locomotive con questa legge gli Stati Uniti fornirono all’Unione
Sovietica durante la IIa G.M. decine di migliaia di autocarri Dodge e Ford,
migliaia di Jeep, aeroplani di alte prestazioni e tutto il carburante
aeronautico ad alto numero di ottano di cui l’Armata Rossa aveva bisogno, le
radio ricetrasmittenti per i carri armati, oltre ad un incalcolabile numero di
tonnellate di derrate alimentari e di munizioni. Senza queste forniture l’Operazione
Barbarossa avrebbe potuto avere un esito molto diverso da quello che ebbe.
Ciò naturalmente
non sminuisce l’immenso contributo di sangue dato dai sovietici, dovuto però in
gran parte all’insipienza del loro corpo ufficiali, decimato dalle purghe
staliniane nei quadri migliori, a sconsiderate scelte tattiche e strategiche e
soprattutto alla scarsa importanza che le classi dirigenti sovietiche attribuivano
alla vita dei loro soldati.
Pare che nulla sia cambiato: è sufficiente leggere “La Russia di Putin” Ed.
Adelphi, della giornalista Anna Stepanovna Politkovskaja, assassinata a Mosca
il 7 ottobre 2006 per rendersene conto.
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